PORTO: STIAMO PER AFFRONTARE SENZA FRENI UNA DISCESA PIENA DI CURVE. MA POSSIAMO FARCELA!

Porto. Doveva essere disastro e disastro è. Lo avevamo detto noi di Ravenna in Comune, intitolando proprio “Il disastro” una nostra nota predittiva del 15 maggio scorso. Lo aveva detto Rossi, il Presidente di AdSP, prima ancora, in aprile: «Ci prepariamo anche noi a gestire numeri in grande flessione per il primo e il secondo trimestre di quest’anno. C’è una perdita significativa di traffici, più contenuta nel primo trimestre – qui possiamo parlare di assestamento – mentre nel secondo trimestre andremo sicuramente verso una perdita con numeri a doppia cifra». Bisogna riconoscere a Rossi una maggior precisione nella previsione dei numeri del porto di Ravenna per quanto riguarda movimentazioni non direttamente dipendenti dalla sua azione (in quanto collegati alla pandemia globale), rispetto ai numeri (letteralmente sparati a casaccio negli ultimi anni) relativi ai mesi a lui stesso occorrenti per aggiudicare l’appalto dei lavori del porto.

Ora, a mettere in fila le merci movimentate nel porto, in un confronto mese su mese rispetto all’anno scorso, abbiamo avuto un – 3,3% in gennaio, una sostanziale stabilità in febbraio (+ 0,9%), un -30,4% in marzo, pressoché confermato in aprile (- 28,9%) ed ora un – 25,7% in maggio. Significa che a maggio quasi un quinto di quanto raggiunto nei primi cinque mesi del 2019 si era volatilizzato (- 18,8%) Si son perse per strada più di 200 navi e di 2 milioni di tonnellate di merci. E non è finita: giugno è appena concluso e, come prevedeva Rossi, non risulterà tanto diverso quando usciranno i dati ufficiali.

Anzi, «in presenza di un blocco quasi totale dei traffici mondiali, la crisi ha investito ed investirà in pieno tutto il sistema portuale anche ravennate almeno per i prossimi mesi (in termini di proiezioni siamo già a settembre 2020)» – lo scrivono i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil. Per i sindacati «il perdurare di questa situazione necessita di un tavolo Regionale per verificare quali strumenti aggiuntivi mettere in campo per rispondere, in maniera corretta, alla gravissima crisi in corso, vista l’esiguità degli interventi nazionali. La tutela strategica, del lavoro nella portualità ravennate, passa anche da stringenti misure che permettano alle imprese e ai lavoratori di traguardare una sponda che, ad oggi, non si vede. È urgentissimo un tavolo di confronto, perché la qualità degli interventi e delle scelte potrà determinare il futuro per migliaia di lavoratori e di famiglie della nostra provincia». In altri termini, più diretti, chiedono che l’Autorità Portuale allarghi i cordoni della borsa almeno nei confronti dei portuali. Per sottolineare il messaggio Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti hanno proclamato uno sciopero di 24 ore il prossimo 24 luglio dei lavoratori dei porti, dei lavoratori marittimi e dei servizi di rimorchio portuale.

Allargando un po’ lo sguardo oltre l’orizzonte dell’ombelico, ora emerge più chiaramente che la trippa per gatti non è finita solo per Ravenna. Nell’ultimo paio di mesi Genova, il più importante scalo italiano e l’unico in grado di competere con i grandi porti del nord, è andato sotto del 30%, La Spezia, Savona e Napoli perdono attorno al 25%. Non abbiamo dati recenti per Venezia, ma nel primo trimestre era giù del 10%: a un tanto al chilo, Ravenna era – 12,7% e abbiamo visto dov’è ora. Certo, il porto di Ravenna è atipico e sconta tutti i limiti di un decennio di mancate manutenzioni sempre rinviate in attesa dell’avvio dei lavori del “progettone”. Questo comporta, spesso, crescita inferiore ad altri scali quando le cose vanno bene (pensiamo allo stallo nei container negli ultimi 25 anni quando invece gli altri porti del nord Adriatico hanno avuto crescita esplosiva) e perdite più clamorose (subendo la concorrenza degli altri porti) quando vanno male. Ma è il contesto mondiale ad essere radicalmente mutato.

Il WTO (World Trade Organization) ha già dato per scontato che con il secondo trimestre andato, il commercio mondiale abbia segnato il maggior calo di sempre. Lo ha affermato il direttore generale Roberto Azevêdo, aggiungendo che, comunque, potrebbe andar pure peggio. Non ha detto “potrebbe piovere!” ma ha comunque dato le dimissioni concludendo improvvisamente il suo secondo mandato, che sarebbe dovuto terminare solo tra un anno. Siamo entrati infatti «in una fase completamente nuova, in cui le tendenze e le tensioni recenti appaiono lontane dinanzi ai cambiamenti strutturali nei flussi che stanno avvenendo o che potranno avvenire nel prossimo futuro. La ristrutturazione delle catene del valore, i fenomeni di re-shoring, in particolare per le produzioni considerate strategiche, e la regionalizzazione delle catene produttive fungeranno da grandi acceleratori verso un cambiamento profondo delle rotte e dei flussi commerciali mondiali». Non siamo noi a dirlo ma l’ISPI, l’Istituto per gli Studi di politica internazionale di cui sono soci i pesi massimi dell’imprenditoria italiana: una sorta di parterre du roi del padronato nazionale. Se restiamo al 2020, «nel corso dell’anno i flussi di scambio potranno contrarsi sino al 32%, e tali stime sono state prodotte quando ancora i Paesi emergenti non erano stati pienamente investiti dall’ondata epidemica. I più colpiti sarebbero Nord America e Asia, con una contrazione rispettivamente del -41% e del -36%; a seguire Europa (-33%) e America centrale e meridionale (-31%)». La globalizzazione era del resto già in affanno pre-Covid-19. Se il discorso vale per tutto il mondo, è ancor più vero per la parte europea dove si moltiplicavano i segnali di un inasprimento delle contromisure verso attività commerciali anti-concorrenziali da parte cinese, in particolare attraverso l’introduzione di nuovi strumenti di difesa commerciale. Ed ora, in tutti i settori merceologici, ci si sta avviando verso un mix di misure per favorire il “riavvicinamento” delle produzioni, in precedenza delocalizzate fuori dall’Europa, e di imposizioni anche di tipo fiscale per disincentivare le importazioni extraeuropee.

Quello che già sta avvenendo sul fronte dell’acciaio cinese è un modello già pronto per venire replicato. Citiamo dalla relazione dell’Autorità Portuale di accompagnamento dei dati statistici appena pubblicati: «I prodotti metallurgici, con 2.145.286 tonnellate, risultano in calo, rispetto ai primi cinque mesi dello scorso anno, del 29,2% (886 mila tonnellate in meno). I Paesi da cui sono calate maggiormente le importazioni sono la Turchia (-28,8%), l’India (-49,3%) e la Cina (-72,3%). Tengono Corea del Sud, Germania e Taranto. Nel 2019, il Porto di Ravenna aveva importato da Paesi extra-UE 3.556.838 tonnellate, risultando il primo porto italiano per l’import di metallurgici extra-UE (56,2%) e tra i primi porti europei (14%). È evidente come l’adozione di misure protezionistiche sulle importazioni in Europa di prodotti siderurgici da paesi extra-UE possa rappresentare per i traffici del Porto di Ravenna una potenziale minaccia».

E il traffico contenitori? Viene da dire che, quasi per fortuna, il peso di questa tipologia di confezionamento, che caratterizza qualitativamente in positivo i porti di rilievo internazionale, per Ravenna è piuttosto ridotto. Citiamo ancora dalla relazione di Rossi: «Per i contenitori, pari a 81.469 TEUs, si sono registrati 7.529 TEUs in meno rispetto ai primi cinque mesi del 2019 (-8,5%). Nel solo mese di maggio i TEUs sono stati 16.270, con una flessione del 5,3%. Il numero delle toccate delle navi portacontainer, in particolare, è stato pari a 180 contro le 214 del periodo gennaio-maggio 2019. Con riferimento alle dinamiche dei contenitori a livello globale, secondo i dati divulgati dall’International Association of Ports and Harbors (IAPH) l’8 giugno u.s, il Covid-19 ha portato a un gran numero di partenze in bianco delle navi dai porti, principalmente sulle rotte commerciali con l’Estremo Oriente».

Quali conclusioni si possono trarre da tutto ciò? A Ravenna, dopo anni di attesa, si è infine avvicinata a conclusione la procedura per assegnare la progettazione finale e la realizzazione dei lavori del porto. L’ipotesi progettuale da sviluppare prevede, tra le altre cose, la realizzazione di un chilometro di nuove banchine destinate a trasferirvi le attività dell’attuale terminal container, molto più piccolo. Si tratta di banchine che, in assenza del terminal container vero e proprio, da realizzarsi su aree privatamente detenute da SAPIR, sono destinate a rimanere inutilizzate. E lo resteranno inevitabilmente, in quanto è privo di qualunque sostenibilità economica l’investimento che la società mista pubblico-privata dovrebbe affrontare. Proprio per questo non lo ha programmato. Né SAPIR né Contship, ossia i due soci della società che gestisce attualmente il terminal container, TCR. Già oggi il terminal container attuale è sovradimensionato. Per poter divenire utile (se sostenibile l’investimento è tutto da vedere) un nuovo terminal container in penisola Trattaroli dovrebbe poter contare su fondali talmente irrealistici (in quanto non presenti nemmeno in mare aperto fuori dalle dighe) da essere stati rinviati ad una ipotetica seconda fase successiva al “progettone” attuale: – 14,50! Il quale “progettone”, lo ricordiamo, se fossero rispettati i tempi (contro tutti i precedenti storici) richiederebbe 10 anni per completarsi. «Dunque», come avrebbe detto il precedente Presidente dell’Ente Porto, quel Galliano Di Marco defenestrato nel febbraio 2016 proprio per essersi giocato il tutto per tutto pur di far decollare il progetto: «Di che parliamo?». E non è che si possa pensare che far delle banchine da lasciar lì, comunque sia, è portarsi avanti. Le banchine invecchiano, specie se non utilizzate e, quindi, senza nessuno che le manutenti. Basta fare un giro in porto e, subito dopo le banchine concessionate ad Eurodocks, può vedersi una landa cementificata e già decrepita: realizzata dall’Autorità Portuale in un tempo lontano solo qualche anno, davanti a terreni di SAPIR, senza che SAPIR abbia mai realizzato alcunché, dovranno essere demolite e ricostruite per poter venir utilizzate.

E le famose piattaforme logistiche? Sono nate morte prima del Covid-19, figurarsi ora. Nel senso che, dal punto di vista economico, non hanno alcun senso: mancano traffici e potenziali impieghi per giustificarli. Servono unicamente, come ben si sa, a diventare luogo di deposito dei fanghi del Candiano in quanto altrimenti non si sa dove metterli. La loro cementificazione e asfaltatura rendere un terrificante servizio al territorio circostante Porto Fuori: un deserto ricoperto da un immenso impermeabile!

Come uscirne, allora? L’Autorità Portuale ha incontrato nei giorni scorsi associazioni della logistica e portuali e ha concluso l’incontro affermando che se ne può venire fuori con il “progettone” e «con la predisposizione di un piano promozionale condiviso con operatori ed Istituzioni». Ci perdonerà Rossi, ma non crediamo che la pubblicità del porto, da sola, produca il miracolo!

Ma non per questo pensiamo che sia il caso di rimanere tranquilli mentre imbocchiamo la lunga discesa piena di curve con una macchina senza freni. Pensiamo ad un modo diverso di guidare citando un altro porto del nord Adriatico: Trieste. Che si è avviato lungo una strada diversa: «meno “grandi opere” ma utilizzo razionale di quello che c’è: nodi infrastrutturali, già presenti sul territorio, da strutturare e ottimizzare e, soprattutto, da coordinare unitariamente per far muovere le merci dalle navi ai treni. Risparmiare suolo, farsi carico dell’impatto ambientale, togliere camion dalle strade. Un sistema logistico attrattivo e regolamentato perché le concessioni possano diventare opportunità di investimento. Il pubblico che fissa paletti, il privato che investe: un colpo alla regola di privatizzare i profitti e socializzare gli oneri. Enti di ricerca e università coinvolti per immaginare scenari futuri. Una mano pubblica in controtendenza, dunque». [Il manifesto, 1° luglio 2020, A Trieste vince il fronte del porto, Zeno D’Agostino torna al vertice]. Non sarà un caso, dunque, se i lavoratori del porto di Trieste sono scesi in piazza a manifestare quando il presidente della locale autorità portuale è stato (per pochi giorni) destituito e commissariato. Non abbiamo visto niente di simile a Ravenna quando era stata la volta di Rossi essere destituito e commissariato!

Dunque, va percorsa anche a Ravenna una strada nuova. Sul modello di Trieste, per quanto possibile. Agendo da subito sul “progettone” ad esempio. Rinviando alla seconda (al momento ipotetica) fase la realizzazione del chilometro di banchine delle piattaforme logistiche e anticipando a questa prima, ad esempio, l’indispensabile impianto per il ricondizionamento delle sabbie di escavo, trasformandole da rifiuto in materiale reimpiegabile. Questo impianto, indispensabile sia durante gli escavi di approfondimento che per le manutenzioni dei fondali, è inspiegabilmente uscito dalle priorità dell’Autorità Portuale. Le risorse economiche (pubbliche, ricordiamocelo, perché nel “progettone” non ci sono soldi privati) potrebbero essere impiegate:

  • per realizzare, appunto, l’impianto di trattamento dei fanghi;
  • ma anche per una elettrificazione delle banchine da Rossi esclusa proprio per mancanza di risorse;
  • per espropriare SAPIR dei terreni della penisola Trattaroli, risolvendo in un colpo solo sia le problematiche di SAPIR (società in cui si accavallano malamente funzioni pubbliche con interessi privati) che quelle di sviluppo del porto. Infatti, i terreni della penisola Trattaroli costituiscono l’indispensabile spazio di sviluppo del porto di un domani, per ora lontano, in cui forse i traffici torneranno a crescere ed a rendere importante creare infrastrutture adeguate ad intercettarli. Oggi, invece, ben potrebbero ospitare quelle casse di colmata la cui mancanza obbliga a perdere tempo prezioso svuotando e riempendo l’unica cassa di contenimento dei fanghi oggi disponibile.

Ma anche

  • la modernizzazione delle strade portuali e dei collegamenti ferroviari, oggi non prevista, potrebbe avvantaggiarsene.

E, infine, se proprio l’Autorità Portuale, volesse dimostrare di essere un ente a servizio della collettività (esercizio al quale non sembra propensa a dedicarsi), potrebbe affrontare

  • il problema della bonifica della darsena come bacino di acque fortemente inquinate.

Tutto questo ci darebbe, assieme alla

  • ricostruzione delle vecchie banchine del porto e
  • all’approfondimento dei fondali già indicati nel “progettone”,

un porto moderno, al passo con i tempi, in grado di attrarre traffici e di dare un reddito alle tante e ai tanti che potrebbero ricavarlo da un aumento dell’occupazione. In un porto più sicuro.

Controindicazioni? Nessuna se non l’interesse dei soliti pochi. Ci sembra già di sentirli obiettare che ormai non si può più far niente, che la gara è oramai conclusa, che il vincitore c’è già, che ecc. ecc. Tutto falso: quanto accaduto durante l’emergenza li ha sbugiardati. Si è visto come sia possibile, quando c’è la volontà, chiedere e ottenere attenzione e modifiche a procedure anche consolidate da parte dei Ministeri competenti. Basta volere che le risorse pubbliche servano a realizzare opere di adeguamento ai tempi di un porto inteso come bene della collettività. Se invece i soldi devono servire ad aumentare il valore immobiliare di terreni incolti perché si trovano improvvisamente davanti un chilometro di banchine, ecco, allora non sarà sicuramente “possibile” modificare alcunché. I tanti che ne trarrebbero profitto nel primo caso sono i cittadini di Ravenna, del comune ed anche della Romagna. I pochi ad avvantaggiarsene nel secondo stanno scritti nel libro soci di SAPIR. Quanta influenza possano avere le prese di posizione del “primo cittadino” nei fatti del porto ce lo ha fatto vedere il precedente Sindaco nella defenestrazione di Di Marco. Perciò ci rivolgiamo all’attuale Sindaco per chiedergli: da che parte sta?

[Nella foto: l’Audacia, la posatubi che l’anno scorso l’Autorità Portuale ha deciso di ospitare per sei mesi al posto delle navi da crociera quando ancora potevano arrivare]

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