FOIBE – COSE FUORI DAL COMUNE

Iniziamo con questa domenica a “riempire” i nostri spazi con contenuti che non sono direttamente collegati all’ambito locale. Ravenna in Comune non ha mai rinunciato e mai rinuncerà a sviluppare un pensiero critico anche su quanto si estende oltre i confini del nostro Comune. Tuttavia, nell’ottica della cittadinanza attiva, la nostra azione politica si sviluppa prevalentemente tra Ravenna, forese e lidi. Da questa settimana le nostre incursioni domenicali si propongono di trattare quanto dobbiamo lasciare da parte nel resto della settimana, costrette e costretti entro i confini del secondo comune più grande d’Italia. Spesso ci troveremo dunque ad occuparci, la domenica, di Cose fuori dal Comune.

Cominciamo con le foibe. Ieri è stato celebrato il giorno del Ricordo, così chiamato per evitare la confusione con quello della Memoria. Nascono in momenti diversi ed hanno finalità diverse su cui qui non ritorniamo. Però è bene riproporre almeno il nome di uno dei primi firmatari della proposta di legge per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”: Ignazio La Russa. Gli altri sottoscrittori arrivavano comunque anch’essi dai banchi dell’ex MSI. Primo firmatario della proposta di legge per istituire il giorno della memoria, invece, fu Furio Colombo. Crediamo sia sufficiente per inquadrare il diverso contesto ed i valori di riferimento che le due leggi si portano dietro.

Uno dei pochi elementi in comune tra le due giornate è quello di focalizzare l’attenzione su uno specifico momento di una storia più vasta. E questo porta a travisamenti importanti. Così la giornata della Memoria perde di vista come le violenze contro le popolazioni di cultura, prima ancora che religione, ebraica abbiano una diffusione geografica molto più vasta e temporalmente di molto antecedente allo sterminio sistematizzato del Reich nazista. Ed a sua volta dalla giornata del Ricordo fuoriesce il contesto da cui scaturisce l’abbandono di Istria e Dalmazia da parte degli abitanti di lingua italiana a conclusione del secondo conflitto mondiale. In particolare si smarrisce, deliberatamente, la feroce persecuzione instaurata in Jugoslavia dagli occupanti italiani e tedeschi. Così come si falsifica, altrettanto deliberatamente, la storia in una narrazione che vincola le foibe alla pulizia etnica degli italofoni.

Riproduciamo di seguito due stralci di altrettanti documenti, come contributo al contrasto del revisionismo storico e delle fake news su cui ormai si fonda il birignao dell’informazione, pubblica e privata, a senso unico. Entrambi i documenti sono riportati nella loro interezza sul nostro sito. Entrambi gli scritti nascono in risposta al discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica il 9 febbraio 2019 in occasione della giornata del Ricordo.

Da “Lettera al Presidente della Repubblica Mattarella” di Stojan Spetič (22 febbraio 2019): «Dopo la dissoluzione della federazione jugoslava, la costituzione della commissione mista italo-slovena preparò un rapporto storico sulle vicende del confine orientale che l’Italia inaspettatamente non volle pubblicare. Era nel frattempo iniziato il periodo del revisionismo storico e della parziale riabilitazione dei “ragazzi di Salò”. Poi si istituì per legge la Giornata del Ricordo, sostanziale contrappeso alla Giornata della Memoria, ridotta a semplice occasione per qualche sbrigativa cerimonia. Ormai da quindici anni subiamo ripetuti tentativi di fomentare l’odio contro i popoli vicini con accuse di “pulizia etnica” ed uccisioni di massa di persone “colpevoli soltanto di essere italiani”. A questo coro Lei ha aggiunto la sua autorevole voce. Ma è proprio così? Il fascismo non c’entra? Era solo odio etnico? Mi permetta di segnalarle alcuni fatti incontrovertibili.

L’Italia fascista ha aggredito la Jugoslavia annettendosi la provincia di Lubiana, trasformata in una prigione a cielo aperto circondata da filo spinato. Nelle sue fosse ardeatine (Gramozna jama) l’esercito italiano fucilò in un solo mese più di cento ostaggi. In tutta la Slovenia ci furono stragi e fucilazioni indiscriminate di civili. In Montenegro fu peggio. Poi arrivarono i tedeschi chiamati dai fascisti locali. La “Prinz Eugen Division” bruciò una ventina di paesi ed uccise 2500 persone.

Nelle foibe del Carso triestino vennero inumati anche moltissimi soldati tedeschi caduti nelle battaglie attorno la città e che in seguito furono recuperati e trasportati al cimitero militare di Costermanno. Sia a Trieste che a Gorizia vi furono, nella resa dei conti, anche vittime innocenti tra cui persino aderenti ai CLN italiani. Così come vi furono uccisioni da parte di criminali comuni che si fecero passare per partigiani. Scoperti vennero poi giustiziati dagli stessi jugoslavi.

È vero. La fine della guerra in tutta Europa vide momenti di atrocità e di vendetta, ma non si può parlare di pulizia etnica o di uccisi “soltanto perché italiani”».

Da “Su Mattarella e le foibe” di Sergio Bologna (14 febbraio 2019): «Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe. La versione secondo cui gli infoibati sarebbero stati in maggioranza cittadini inermi che avevano il solo torto di essere italiani è falsa. La grande maggioranza di quelli che poi furono gettati nelle foibe erano membri dell’apparato repressivo nazifascista, in mezzo ci saranno state anche persone che non avevano commesso particolari crudeltà ma c’erano anche quelli che avevano torturato o scortato i treni che portavano ebrei e combattenti antifascisti nei campi di sterminio. Così come non regge la versione che vorrebbe la città di Trieste sottoposta a una dittatura sanguinaria durante i 40 giorni dell’occupazione jugoslava. Se non altro per la presenza delle truppe anglo-americane.

Peggiori delle false ricostruzioni sono le amnesie. Trieste e zone circostanti, assurte a provincia del Reich, erano diventate un ricettacolo di criminali di guerra, l’angolo di un continente dove la risacca della storia aveva deposto i suoi rifiuti più immondi. I partigiani di Tito hanno liberato l’umanità da alcuni di questi individui, hanno spento quel forno crematorio. Dovremmo essere loro grati per questo, pensando quale tributo di sangue è stato da essi versato per compiere quella missione. Ora però vengono ricordati come un’orda di barbari assetati di sangue, non di sangue nemico, no, di sangue di povera gente inerme che non aveva alzato un dito contro di loro».

[nell’immagine: Lubiana marzo 1941, l’Esercito italiano impegnato nella conquista della Jugoslavia]

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Lettera di Stojan Spetič al Presidente della Repubblica Mattarella

Egregio Signor Presidente
della Repubblica italiana
on. Sergio Mattarella
Quirinale
Roma

Passata la “giornata dell’odio” di orwelliana memoria verrebbe la voglia di chiudersi in casa e lasciar decantare i rancori e la rabbia per le strumentalizzazioni e le falsità dichiarate in quest’occasione.
Il 6 agosto del lontano 1989 accompagnai il giovane Gianni Cuperlo, segretario della FGCI, in un suo pellegrinaggio pacifista e contro la violenza delle guerre partito dall’isola quarnerina di Arbe, dove in un campo di concentramento italiano morirono a migliaia, anche neonati, per poi continuare al Pozzo della miniera di Basovizza, cenotafio in ricordo delle foibe, e finire nella Risiera di san Saba, unico campo di sterminio con forno crematorio in territorio italiano, ancorché ceduto dai fascisti al III Reich di Hitler. In quell’occasione venne ribadito il no alla violenza cieca che a volte colpì anche qualche innocente.

Ci furono polemiche ed iniziative discutibili. Ne seguì, dopo la dissoluzione della federazione jugoslava, la costituzione della commissione mista italo-slovena che preparò un rapporto storico sulle vicende del confine orientale ma che l’Italia inaspettatamente non volle pubblicare. Era nel frattempo iniziato il periodo del revisionismo storico e della parziale riabilitazione dei “ragazzi di Salò”.
Poi si istituì per legge la Giornata del Ricordo, sostanziale contrappeso alla Giornata della Memoria, ridotta a semplice occasione per qualche sbrigativa cerimonia. Ormai da quindici anni subiamo ripetuti tentativi di fomentare l’odio contro i popoli vicini con accuse di “pulizia etnica” ed uccisioni di massa di persone “colpevoli soltanto di essere italiani”.
A questo coro Lei ha aggiunto la sua autorevole voce. Ma è proprio così? Il fascismo non c’entra? Era solo odio etnico? Mi permetta di segnalarle alcuni fatti incontrovertibili.

L’Italia fascista ha aggredito la Jugoslavia annettendosi la provincia di Lubiana, trasformata in una prigione a cielo aperto circondata da filo spinato. Nelle sue fosse ardeatine (Gramozna jama) l’esercito italiano fucilò in un solo mese più di cento ostaggi. In tutta la Slovenia ci furono stragi e fucilazioni indiscriminate di civili. Si legga la testimonianza del curato militare Pietro Brugnoli “Santa messa per i miei fucilati”.

In Montenegro fu peggio. Ma li decine di migliaia di soldati italiani decisero dopo l’armistizio di unirsi ai partigiani di Tito formando la divisione Garibaldi. Alle migliaia di caduti garibaldini venne eretto un monumento al quale solo il presidente Sandro Pertini rese omaggio.
In Istria la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini il 26 luglio 1943 provocarono una sollevazione dei contadini oppressi e dei minatori di Arsia. Vi furono uccisioni indiscriminate di possidenti terrieri, funzionari dello Stato, gabellieri ed esponenti fascisti, anche qualche vendetta personale. Furono infoibate alcune centinaia di persone.

Intanto i gerarchi fascisti sfuggiti alla “jaquerie” chiamarono da Trieste le truppe naziste. Per paura dei possibili delatori le uccisioni aumentarono. Complessivamente furono 400-500 in totale gli uccisi riesumati.

Ma i partigiani nel frattempo avevano anche salvato molte vite italiane. Pochi ne parlano, ma i partigiani sloveni, croati ed italiani fermarono a Pisino un treno bestiame pieno di soldati italiani diretto nei lager in Germania. Furono liberati, circa 600, e vestiti dalla popolazione con abiti civili affinché potessero raggiungere le loro case. Lo stesso successe in tutta la penisola istriana.

Poi arrivarono i tedeschi chiamati dai fascisti locali. La “Prinz Eugen Division” bruciò una ventina di paesi ed uccise 2500 persone. Mio padre, partigiano in Istria, venne ferito e curato dalla famiglia di colui che poi divenne il primo ambasciatore croato a Roma.

Nel maggio del ’45 le truppe jugoslave della IV Armata dalmata e del IX Korpus locale aiutarono i battaglioni di Unità operaia, lavoratori armati delle principali fabbriche e dei cantieri, a liberare Trieste assieme agli alleati neozelandesi. In quell’occasione alcune migliaia di persone vennero fermate per accertamenti. Gli elenchi erano stati evidentemente preparati dalla Resistenza locale. La gran parte venne rilasciata, mentre alcune centinaia accusate di vari crimini vennero passate per le armi. Nelle foibe del Carso triestino vennero inumati anche moltissimi soldati tedeschi caduti nelle battaglie attorno la città e che in seguito furono recuperati e trasportati al cimitero militare di Costermanno.

Sia a Trieste che a Gorizia vi furono, nella resa dei conti, anche vittime innocenti tra cui persino aderenti ai CLN italiani. Così come vi furono uccisioni da parte di criminali comuni che si fecero passare per partigiani. Scoperti vennero poi giustiziati dagli stessi jugoslavi.
E’ vero. La fine della guerra in tutt’Europa vide momenti di atrocità e di vendetta, ma non si può parlare di pulizia etnica o di uccisi “soltanto perché italiani”.

E’ inutile parlare di pace ed Europa se poi la complessità storica viene ridotta a semplificazioni spesso funzionali alla progressiva riabilitazione del fascismo ed attraverso questa dei suoi nuovi fenomeni razzisti, nazionalisti e revanscisti.
Io condanno le violenze gratuite e lo spirito di vendetta che si cerca di rinnovare in questi momenti difficili in cui il continente europeo è attraversato da rigurgiti pericolosi quanto antistorici.

Mi permetta, Signor Presidente, di osservare che le sue parole non aiutano certamente la collaborazione tra i popoli del Nord Adriatico, ne la conciliazione che può rafforzarsi soltanto nel ricordo della comune lotta contro il nazifascismo e per la libertà. Vicino a Fiume operò un battaglione di partigiani italiani, croati e sloveni che significativamente si chiamava “Fratellanza”. Vicino c’è il paese di Lipa dove tedeschi e fascisti uccisero, come a Sant’Anna di Stazzema, tutti gli abitanti, circa trecento, bambini compresi.

Non le chiedo di recarsi a Lipa o alle fosse ardeatine di Lubiana, e nemmeno all’isola quarnerina di Arbe. Per capire meglio la storia del confine orientale basterebbe che Lei visitasse il cimitero di Gorizia, dove giace Lojze Bratuž, mite cattolico e musicista, che nel 1936 a Podgora diresse canti in lingua slovena durante la messa natalizia. Due giorni dopo i fascisti gli fecero bere olio di macchina mescolato con benzina e frammenti di vetro per cui morì dopo un’atroce agonia durata settimane. Lasciò due bambini e la moglie, nota poetessa, che durante la guerra venne sadicamente torturata dai poliziotti dell’ ispettorato speciale di PPSS diretto dal commissario Gaetano Collotti, giustiziato dai partigiani veneti e poi decorato dalla Repubblica Italiana con medaglia d’argento per i “meriti acquisiti nella difesa dell’italianità del confine orientale”. L’on. Corrado Belci cercò inutilmente di farla revocare. La decorazione è ancora valida come quella al carabiniere che a Trieste uccise una ragazza, la staffetta partigiana Alma Vivoda. In compenso nessun riconoscimento andò al maresciallo dei carabinieri del comune di Dolina, vicino a Trieste, che durante un rastrellamento tedesco si rifiutò di indicare le famiglie di sentimenti partigiani. Venne caricato per primo sul camion che lo portò in Germania, da dove non fece ritorno. Venne respinta persino la proposta di intitolargli la locale caserma dell’Arma…

Vede, Signor Presidente, la legge istitutiva del Giorno del Ricordo fissa la data del 10 febbraio che invece dovrebbe essere una festa per ricordare la firma del Trattato di pace a Parigi nel 1947 quando 21 paesi della vittoriosa alleanza antifascista riconobbero, grazie alla Resistenza che la riscattò, l’Italia come paese cobelligerante e quindi parte della comunità dei paesi democratici e civili, mentre la Germania e l’Austria vennero divise in zone di occupazione militare. L’Italia perse i territori conquistati nella Grande guerra. Nei due paesi rimasero minoranze slovena ed italiana.

L’esodo degli italiani dall’Istria venne regolato anch’esso dal Trattato di pace. Fu comunque una tragedia per molti, come lo fu per gli sloveni ed i croati che nel primo dopoguerra dovettero emigrare per salvarsi la vita dalla violenza iniziata già coll’incendio della Casa nazionale degli sloveni a Trieste nel luglio 1920 cui seguì una dura repressione fascista.

La pace ed il riconoscimento dei rispettivi confini col Trattato di Osimo del 1975 gettarono le basi per una convivenza pacifica e la collaborazione in tutti i settori dell’economia, della scienza e della cultura con prospettive di sviluppo inattese, che il rivangare dei sentimenti di revanscismo e di odio possono inficiare.

Spero di averla fatta riflettere.
Ossequi.

Stojan Spetič, già senatore del PCI

Fonte: Cambia il mondo del 22 febbraio 2019

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Von Banditen erschossen (su Mattarella e le foibe)

Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe.

Avevo otto anni quando i partigiani di Tito, il 1 maggio del 1945, proprio sotto casa mia fermarono la loro avanzata per non esporsi al tiro della guarnigione tedesca, asserragliata nel Castello di San Giusto. Erano scesi dall’altipiano del Carso in due colonne, una si era diretta all’edificio del Tribunale dove i tedeschi avevano installato il Comando e l’altra al Castello di San Giusto, dove il vescovo Santin svolgeva il ruolo di mediatore tirando le trattative per le lunghe in modo da dare il tempo ai neozelandesi, avanguardia dell’esercito alleato, di arrivare ed evitare in tal modo che la resa venisse consegnata nelle sole mani dell’esercito di liberazione jugoslavo. Così la guarnigione tedesca si arrese il 2 maggio, presenti anche gli anglo-americani, giunti a marce forzate dalla litoranea. Ma sul Carso, a vista d’occhio dalla città, si combatteva ancora. La cosiddetta “battaglia di Opicina” è costata molti morti, in gran maggioranza tedeschi, e si sarebbe conclusa solo il 3 maggio.

Secondo certe ricostruzioni (Leone Veronese, 1945. La battaglia di Opicina, Luglio Editore, 2015) i primi a essere gettati nelle cavità carsiche furono soldati dell’esercito tedesco, fucilati dopo la resa. La versione secondo cui gli infoibati sarebbero stati in maggioranza cittadini inermi che avevano il solo torto di essere italiani è falsa. La grande maggioranza di quelli che poi furono gettati nelle foibe erano membri dell’apparato repressivo nazifascista, in mezzo ci saranno state anche persone che non avevano commesso particolari crudeltà ma c’erano anche quelli che avevano torturato o scortato i treni che portavano ebrei e combattenti antifascisti nei campi di sterminio. Così come non regge la versione che vorrebbe la città di Trieste sottoposta a una dittatura sanguinaria durante i 40 giorni dell’occupazione jugoslava. Se non altro per la presenza delle truppe anglo-americane.

Peggiori delle false ricostruzioni sono le amnesie. Infatti si dimentica (o si ignora) che l’apparato repressivo nazifascista a Trieste non era di ordinaria amministrazione, aveva un suo carattere di eccezionalità perché ne facevano parte personaggi che hanno avuto un ruolo centrale nella politica di sterminio di Hitler. Christian Wirth era uno di questi. Si legga il curriculum terrificante di questo individuo su Wikipedia: responsabile del programma di eutanasia, prelevava le vittime dalle prigioni, dagli ospedali psichiatrici, tra gli zingari. Comandante del lager di Belzec, riorganizzatore di quello di Treblinka, di Sobibor, fu il primo a usare il monossido di carbonio per gasare i deportati. Arriva a Trieste nel 1943. Un anno dopo i partigiani lo individuano e lo uccidono (non è vero, come scrive Wikipedia, che fu ucciso in combattimento presso Fiume, il suo certificato di morte è apparso in rete non più tardi del 2017, dice: von Banditen erschossen, morto in un agguato organizzato dai partigiani mentre passava su una macchina scoperta, nei pressi di Erpelle (Hrpelje) a pochi chilometri da Trieste). Ma ce n’erano altri di personaggi dalla pasta criminale analoga a Wirth, che si erano fatti i galloni nei peggiori Lager del Reich e venivano a Trieste dove gente importante li accoglieva a braccia aperte e dove trovavano anche il modo di non perdere certe abitudini, visto che a portata di mano avevano la Risiera di San Sabba, un forno crematorio che la mia città ha avuto la vergogna di ospitare. Proprio a Opicina la salma di Wirth ricevette gli onori militari.

Trieste e zone circostanti, assurte a provincia del Reich, erano diventate un ricettacolo di criminali di guerra, l’angolo di un continente dove la risacca della storia aveva deposto i suoi rifiuti più immondi. I partigiani di Tito hanno liberato l’umanità da alcuni di questi individui, hanno spento quel forno crematorio. Dovremmo essere loro grati per questo, pensando quale tributo di sangue è stato da essi versato per compiere quella missione. Ora però vengono ricordati come un’orda di barbari assetati di sangue, non di sangue nemico, no, di sangue di povera gente inerme che non aveva alzato un dito contro di loro.

Ciò che accadde in quelle tragiche giornate di aprile/maggio 1945 impedì alla memoria storica di mettersi subito al lavoro. Quello che sarebbe stato l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia si costituì senza i comunisti. Enzo Collotti diede un contributo fondamentale all’impostazione della ricerca e l’Istituto divenne uno dei luoghi dove cominciai a capire in che razza d’inferno ero cresciuto. Il primo periodo d’attività fu dedicato a “mettere in sicurezza”, come si dice in termine aziendale, la storia dei movimenti di liberazione nella regione, storia tormentata e perciò fonte di drammatiche divisioni (un esempio per tutti l’eccidio di Porzus, ripreso anche nell’ampia pubblicazione, Atlante storico della lotta di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Una resistenza di confine 1943-1945, 2005). Tra tutti gli Istituti della Resistenza italiani quello di Trieste fu l’unico dove la presenza comunista o fu assente o svolse un ruolo decisamente secondario. Del resto il comunismo è finito ormai da 30 anni e i suoi seguaci di allora sono in genere i più accaniti nell’infierire sul suo cadavere, ma a leggere certe vaneggianti uscite di quotidiani come “Il Giornale” o “Libero Quotidiano” nel Giorno della Memoria  sembra che orde di “trinariciuti” riescano ancora a dettare legge in Italia.

Negli Anni ’90 la dissoluzione dell’ex Jugoslavia ha investito in pieno il senso d’identità nazionale di croati, sloveni, serbi, macedoni; i nazionalismi hanno fatto a pezzi l’esperienza socialista, la guerra di liberazione non è stata più l’epopea fondativa dello Stato federale, l’immagine di Tito è stata strappata dal piedestallo e se si voleva trovare gente che gettava fango sulla sua figura e sul suo ruolo la si trovava soprattutto tra i suoi compatrioti. L’orrore di quella guerra degli anni Novanta, che così bene Paolo Rumiz ha decodificato nei suoi meccanismi oscuri, ha cancellato ogni traccia di orgoglio per l’eroica ribellione alla dittatura nazifascista. Le falsità, le deformazioni, le mistificazioni che oggi dilagano avrebbero potuto diventare communis opinio in quel contesto, invece gli storici triestini legati all’Istituto colsero l’occasione dell’apertura di certi archivi per intensificare la ricerca della verità.

Perché questo va detto con forza: le ispezioni nelle cavità carsiche, le esumazioni, le ricerche per dare un nome ai morti, il recupero e l’attento esame dei registri, di qualunque documento in grado di fare luce sulle circostanze, sulle vittime e sui carnefici, tutto questo lavoro ingrato e difficile fu opera di storici che si riconoscevano pienamente nei valori della Resistenza posti alla base della nostra Costituzione, come Roberto Spazzali, Raoul Pupo e molti altri. Sono loro che hanno dimostrato rispetto per gli infoibati, che hanno contestualizzato quegli avvenimenti, mentre alla canea revanscista e neofascista il destino di quei morti non interessava per nulla, era solo pretesto, strumento, per aggredire gli avversari politici di turno e oggi per fare pura e semplice apologia del fascismo. Come mai nel Giorno della Memoria un Presidente della Repubblica invece di rivolgersi ai primi per impostare un discorso con un minimo di rigore storico si rivolge ai secondi?

Sergio Bologna

Fonte: Volere la luna del 14 febbraio 2019

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