Venerdì prossimo, 6 settembre, entrerà in vigore la “riforma” degli istituti tecnico-professionali. È la conseguenza della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 22 agosto 2024 della Legge 121 dell’8 agosto 2024 che ha per titolo: “Istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale”. L’intento dichiarato è quello di impartire agli studenti “competenze teoriche e pratiche di qualità grazie al contributo delle imprese”. La ragione della riforma? Il ministro Valditara dichiara pure quella: “Consentire al sistema produttivo di avere le professionalità necessarie per essere competitivo. Ad oggi la metà delle aziende fa fatica a coprire i posti disponibili, questa è la realtà. Un mismatch drammatico tra offerta e domanda di lavoro. Noi ce ne siamo fatti carico”.
Cristina Quintavalla, nel suo breve saggio “La scuola al servizio dell’impresa” ne descrive i tratti fondamentali: “Aumenta le ore di PCTO [cioè i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, un altro modo di chiamare la famigerata alternanza scuola-lavoro], l’apprendistato è anticipato a 15 anni, affida la definizione dei contratti di prestazione d’opera dei giovani studenti ad accordi di partenariato con i soggetti del sistema delle imprese e delle professioni; inserisce i privati (sempre le imprese) nella programmazione dell’offerta formativa, nelle attività di insegnamento e formazione, nonché di «addestramento» in attività laboratoriali; regionalizza il sistema formativo, in ossequio all’autonomia differenziata; riduce di un anno la formazione scolastica; acuisce la natura classista della scuola, che prevede percorsi troppo differenziati per chi proviene da classi povere rispetto a quelli destinati ai ceti più abbienti. Proprio ciò che chiedevano da tempo le imprese”.
Lo riportiamo di seguito integralmente ricordando, in questi giorni in cui è in pieno svolgimento la campagna per le elezioni regionali, che Cristina Quintavalla accettò di candidarsi alla Presidenza dell’Emilia-Romagna in occasione delle elezioni del 2014, anticipate dalle dimissioni di Vasco Errani. La lista L’Altra Emilia-Romagna non riuscì a farla eleggere (divenne invece consigliere Piergiovanni Alleva e alle ultime elezioni la lista non ha avuto rappresentanti eletti). Già docente di storia e filosofia, ha sempre interpretato il suo ruolo come ricercatrice di un sapere critico. Intellettuale militante, è impegnata nella sinistra radicale e nella decostruzione delle narrative dominanti.
Come Ravenna in Comune mettiamo in evidenza come la “riforma Valditara” si inserisca in una linea evolutiva della scuola che da tempo ormai, senza distinzioni tra “riforme” di centrosinistra e di centrodestra, asseconda una divaricazione tra la formazione riservata alla classe dirigente e quella in cui si trova ghettizzata la maggioranza destinata ad alimentare le fucine di Confindustria. Che a proporla sia PD e compagnia o Lega e soci, poco cambia. Il cosiddetto ascensore sociale ha smesso da un pezzo di funzionare, gli accessi ai piani alti sono riservati a chi già li frequentava per diritto di nascita ed il sovraffollamento di quelli più bassi non accenna a diminuire. La scuola è funzionale a “mettere in riga” chi per origini deve “stare al proprio posto”. Contro tutto questo bisogna sicuramente lottare, tenendo però presente che la politica, dalla destra a tutto il centrosinistra, si è messa tutta al servizio delle classi dominanti. Dunque non ci si aspetti di trovare in Schlein un’alleata a meno di non essere un padrone!
La scuola al servizio dell’impresa
Il DdL relativo all’istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale, recentemente approvato, non è una novità assoluta. Era nell’aria da molto tempo, e non solo per volontà di pseudo ministri leghisti o para-fascisti. In realtà è una variante di un leit motiv caro a certa cultura piddina, social-liberista, amante della razionalizzazione di stampo capitalistico del sistema d’istruzione: “rispondere alle esigenze del settore produttivo nazionale secondo gli obiettivi del piano nazionale dell’industria 4.0”.
Declinato su variazioni più o meno omogenee, la sostanza delle riforme attuate o ventilate viene da lontano, dall’assalto alla scuola pubblica, quella della Costituzione, libera da ingerenze, autonoma rispetto all’agone dei contrastanti interessi in campo, in cui il sapere è fine a se stesso ed ha come unica ed ultima destinazione la formazione di persone critiche, liberamente pensanti.
Certo, la scuola della Costituzione ha costituito un orizzonte ideale più che una realtà attuata nella materialità della vita degli istituti scolastici. All’appuntamento con Valditara giunge un sistema scolastico certamente logoro, usurato, che ha perso molti punti di riferimento, svuotato nelle sue aspettative, corroso da mancanza di risorse. I docenti continuano ad essere reclutati in modo bizzarro e arbitrario (dai concorsi sullo scibile umano a quelli a crocette, alle sanatorie, ai corsi abilitanti a pagamento, ecc.), preferibilmente precario; sono insufficientemente supportati nell’espletamento del loro lavoro, divenuto negli anni sempre più burocratico, formale; vengono investiti da aspettative famigliari e sociali a cui non sono più in grado di corrispondere, rinchiusi in una solitudine impotente. Gli organi collegiali sono divenuti simulacri ossificati di quella che avrebbe dovuto essere una cogestione partecipata delle componenti del processo formativo.
Nella hit parade degli avvelenatori della scuola pubblica ha troneggiato la cosiddetta “Buona Scuola” di Renzi, all’epoca segretario nazionale del PD, madre di tutte le miscele più corrosive: la managerializzazione dei presidi, gettati sul mercato alla ricerca di sponsor privati, utenti e docenti da scegliersi in autonomia negli albi territoriali, in ufficiale deroga ai finanziamenti statali, alle graduatorie pubbliche, a paradigmi di trasparenza e di controllo; lo “school bonus” e le detrazioni per la famiglie che avessero optato per le paritarie; la premiazione con un bonus di qualche centinaio di euro dei docenti ritenuti da un dirigente scolastico migliori. Insomma, la logica degli incentivi, discrezionali, una tantum, ha preso il posto di diritti uguali per tutti.
Faceva capolino la divisione dei lavoratori della scuola. All’uguaglianza nella legge e davanti alla legge subentrava l’arbitrio, alla cogestione la competizione.
Soprattutto la ”pessima scuola” di Renzi introduceva la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, vale a dire l’effettuazione di 400 ore di tirocinio negli istituti tecnico-professionali e di 200 ore nei licei, cioè lavoro giovanile gratuito, pur sotto la veste dell’esperienza professionalizzante. Oggi queste ore sottratte alla conoscenza si chiamano con terminologia altisonante “PCTO”, percorsi per il conseguimento di competenze trasversali e per lo sviluppo della capacità di orientarsi nella vita personale e nella realtà sociale e culturale: restano obbligatori, sono condizione per l’ammissione agli esami di Stato, “non possono essere considerati come un’esperienza occasionale di applicazione in contesti esterni dei saperi scolastici, ma costituiscono un aspetto fondamentale del piano di studio” (l.n.145/2018).
Attraverso l’accoglimento della Raccomandazione del Consiglio del Parlamento Europeo (22 maggio 2018), che invitava a riprogettare la didattica a partire dalle competenze trasversali, funzionali a definire un progetto concordato per la soluzione di un problema, coi PCTO viene perseguito l’obiettivo di sviluppare le attività imprenditoriali “così come effettivamente presenti nella realtà, naturalmente con l’apporto fondamentale del territorio (aziende, enti culturali, professioni, etc.)”.
In questo contesto il DdL di Valditara sguazza a suo agio nella melma dei picconatori del sistema formativo pubblico. Aumenta le ore di PCTO, l’apprendistato è anticipato a 15 anni, affida la definizione dei contratti di prestazione d’opera dei giovani studenti ad accordi di partenariato con i soggetti del sistema delle imprese e delle professioni; inserisce i privati (sempre le imprese) nella programmazione dell’offerta formativa, nelle attività di insegnamento e formazione, nonche di “addestramento” in attività laboratoriali; regionalizza il sistema formativo, in ossequio all’autonomia differenziata; riduce di un anno la formazione scolastica; acuisce la natura classista della scuola, che prevede percorsi troppo differenziati per chi proviene da classi povere rispetto a quelli destinati ai ceti più abbienti.
Proprio ciò che chiedevano da tempo le imprese. Sono le pre-condizioni dell’industria 4.0, appunto. Ne Il coragggio del futuro. 2030-2050, libro dei sogni di Confindustria, sono elencate le pretese del mondo imprenditoriale rispetto al sistema formativo italiano, che i suoi picconatori, ancor prima che il testo formalizzasse le richieste, calati nello spirito che muove gli imprenditori, da Moratti, passando per i Fioroni-Gelmini-Profumo-Renzi/Giannini-Bianchi, sino a Valditara, hanno perseguito come una mission possible.
Le azioni necessarie secondo Confindustria devono porre la scuola al servizio dell’impresa. Punto. Dunque includere:
- la valorizzazione della didattica delle competenze, di carattere aziendale, o comunque adeguate al mercato del lavoro, da attuarsi attraverso l’uso combinato di lezioni in aula, lezioni su piattaforma digitale, partnership pubblico-privato.
- la riproposizione del mix, costituito da digitale, valutazione standardizzata, idea di mercato;
- l’elaborazione e la realizzazione di un piano nazionale per l’orientamento, in collaborazione con associazioni datoriali, già dalla scuola secondaria inferiore, che offra a giovani e famiglie informazioni puntuali sull’offerta formativa, anche in funzione degli sbocchi professionali;
- la transizione tra scuola e lavoro, per il cui scopo deve essere superata l’ottica tutta italiana del “prima si studia, poi si lavora”, per migliorare il collegamento tra sistema educativo e sistema produttivo;
- il potenziamento, nel periodo di istruzione secondaria superiore, della metodologia dell’alternanza scuola-lavoro sia nell’ambito didattico dei PCTO sia nella forma contrattuale dell’apprendistato “duale” (che consente di acquisire, studiando e lavorando, un titolo di studio);
- l’istituzione delle “Reti Scuola-Impresa”, piattaforme collaborative di governance tra scuola e imprese, riconoscibili dall’esterno e con loro personalità giuridica, che permettano di sviluppare partnership strutturate che durino nel tempo, anche dal punto di vista finanziario;
- lo sviluppo della “seconda gamba” professionalizzante dell’istruzione terziaria, ovvero di un sistema “Higher-VET” italiano costituito, sul modello degli ITS, da istituzioni terziarie professionalizzanti che si caratterizzino per la partecipazione delle imprese alla co-progettazione dei percorsi e alla governance, laboratorialità e flessibilità didattica, robuste dosi di formazione sul lavoro, un’offerta formativa tarata sui fabbisogni di competenze dei territori;
- la predisposizione, sul fronte dell’università, di sistemi d’incentivi retributivi per favorire la motivazione e la produttività del corpo docente universitario nell’ambito del rapporto università-imprese. Inoltre l’incentivazione delle esperienze lavorative durante gli studi universitari attraverso l’introduzione di formule semplificate per la formazione in azienda (tirocinio, apprendistato di terzo livello), per anticipare i tirocini e i praticantati durante i corsi universitari e per favorire la diffusione dei summer job.
Appare dunque con grande evidenza che sta finendo un’epoca, quella della scuola pubblica, definita dalla Costituzione. Ne muta la natura, la finalità, la funzione, la governance.
Il sistema scolastico deve ormai formare soggetti adatti al mercato del lavoro, capaci di essere flessibili rispetto alle esigenze ed ai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, appendici adattabili ai processi di ristrutturazione aziendali, e al contempo formare la futura classe dirigente, omogenea al sistema economico-produttivo, incentivabile, mercificabile, competitiva.
Manovalanza e managerialità costituiscono i due poli all’interno dei quali offerte formative diversificate sono finalizzate a mantenere le divisioni sociali in funzione della divisione del lavoro su base di classe, di genere, di etnia.
L’assalto è condotto alla cultura, ai contenuti concettuali, alle metodologie, alle implicazioni culturali dei vari saperi, alla loro stessa struttura epistemologica. Draghi e Bianchi si espressero apertamente controlo specialismo delle materie, contro l’impianto disciplinare dei saperi, a favore della professionalizzazione precoce.
Vengono avanti, in nome della religione del profitto, la decostruzione del pensiero discorsivo, con la sua prerogativa argomentativa e dialettica, la sua capacità critica e problematizzante; la marginalizzazione dello studio; l’irrilevanza dei libri; la banalizzazione dei saperi ridotti a nozionismo crocettaro della peggior specie; un’idea di sapere inteso come “cassetta degli attrezzi”.
Viene colpito al cuore il carattere di gratuità della conoscenza, la sua non finalizzazione ad alcunchè che non sia l’arricchimento interiore, che non ha alcun fine se non quello di formare persone dotate di strumenti di critica dell’esistente.
La cultura invece, insegnata o appresa nella scuola, dovrebbe avere la funzione di impegnare e orientare nella costruzione di sé e del mondo attorno a sé.
Da cosa la si riconosce? Dalla sua capacità di fornire gli strumenti per smontare la realtà stessa dal suo interno, di costituire insomma una forza di resistenza alla realtà.
Esattamente il contrario della scuola al servizio dell’esistente, iniquo, violento, competitivo, distruttivo, delineato da quei pochi, che ne hanno concentrato su di sé il potere.
Cristina Quintavalla
Fonte: La Fionda del 20 agosto 2024
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