Voto utile” e “unità della sinistra”

Tratto da: www.contropiano.org

Puntuali come l’influenza stagionale, quando è tempo di elezioni, due slogan consumati tornano a dominare nello stracco dibattito “a sinistra”: voto utile e unità della sinistra.

Com’è ovvio, queste parole tornano solo perché ci sono delle elezioni abbastanza importanti in agenda – per i principali Comuni italiani, come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, ecc – altrimenti sarebbero rimaste parcheggiate in cantina fino alle prossime elezioni.

Sebbene abbiano innumerevoli relazioni reciproche, sarà bene esaminare questi due slogan separatamente, e solo dopo mostrarne i legami perversi. Si ragiona meglio con concetti “puliti”, privi di incrostazioni maleodoranti.

Voto utile


Sembra pacifico che in una competizione, anche elettorale, si partecipa per vincere. E siamo d’accordo, perché a nessuno piace perdere e sprecare inutilmente il proprio poco tempo libero dagli impegni di lavoro o familiari.

Ma cosa significa “vincere”?

La risposta cambia con la dimensione oggettiva del soggetto cui viene rivolta. Un “partito grande” punta alla conquista della poltrona di sindaco – in casi come questo – e del maggior numero possibile di consiglieri.

Un partito piccolo – e quelli “di sinistra” lo sono ormai da tempo – ritiene un successo clamoroso ottenere almeno un consigliere comunale (ma anche uno municipale va bene lo stesso per gridare alla vittoria).

E siamo d’accordo anche in questo caso, per il motivo già detto.

Quando però si scende dal cielo dei desideri e si mettono “i piedi sul terreno” lo scenario appare assai meno scontato.

Nessuno dei soggetti “piccoli” ha speranza di conquistare un incarico da sindaco, lo sanno tutti. E dunque tutta la discussione devia presto verso un “piano B”: non far vincere le destre. Da cui inevitabilmente discende il “voto utile”, da esercitare subito (primo turno) o, mal che vada, al ballottaggio.

Chiaro che questa discussione resta comunque astratta, perché il singolo elettore alla fine fa come gli pare, e in tempi di “voto liquido”, ad alta volatilità da una scadenza all’altra, nessuno – tranne le reti clientelari consolidate – può vantare “pacchetti di voti sicuri”.

I movimenti o partiti non clientelari possono insomma contare solo su un voto di radicamento e, in misura ancora minore, sul voto di opinione. Il primo arriva dagli (eventuali) insediamenti in quartieri, fabbriche, luoghi di lavoro o attività sociale. Il secondo dipende dallo spazio – infinitesimo – che i media principali lasciano “per motivi istituzionali” anche ai soggetti minori.

Il radicamento sociale è quel che è, di questi tempi. Da lì possono arrivare “voti che pesano” e che confermano la bontà (o meno) dell’intervento sociale, ma in genere non bastano a far raggiungere le “soglie di sbarramento” poste a riparo del sistema.

Il voto di opinione è altrettanto improbabile, se non si trova l’occasione o la modalità per “farsi notare” e costringere i media a parlare di te o darti la parola (in un orario o un taglio pagina che si noti).

Su queste difficoltà oggettive, storicamente determinate, fanno leva i propagandisti del “voto utile”, con un discorsetto che suona così: “certo, sarebbe bello avere un consigliere o un sindaco che ti rappresenta davvero, ma siccome è troppo difficile averlo, tanto vale far vincere quello meno lontano dalle tue idee”.

Mettendo anche in questo caso “gli scarponi sul terreno” questo ragionamento ti spinge verso il voto alla “sinistra non propriamente Pd” in prima battuta e direttamente al candidato del Pd in seconda (al ballottaggio).

Ossia a votare proprio quelli che da 30 anni – governando a turni alterni con la destra, ma con le stesse politiche – ci stanno togliendo pezzo dopo pezzo tutti i diritti conquistati a caro prezzo (morti, stragi, arresti, condanne, feriti, ecc) nei decenni precedenti. E che oggi governano convintamente e proprio insieme alla destra sotto il comando di Mario Draghi, ossia dell’Unione Europea e nella “fedeltà euro-atlantica”.

Non vi basta? E allora rammentatevi i discorsi di tanta parte del Pd – come Emiliano, De Luca, Minniti, i “renziani” ancora lì presenti, ecc – che elogiano Salvini perché comunque sta costruendo “una visione per il Paese”. Una visione fascistoide, inutile dire.

Dunque è ora di rovesciare il senso del discorso, oltre che il tavolo dei giochi truccati.

L’unico voto inutile è quello dato al nemico!

Votare Pd (o Sinistra Italiana, o Mdp, ecc) non produce scostamenti significativi dal votare Lega o Forza Italia. Sulle priorità sociali alla fine non cambia assolutamente nulla (se non per alcune figure comunque minoritarie e spesso usate strumentalmente).

L’unico voto utile è quello dato a chi rappresenta seriamente e senza compromessi interessi sociali chiari, definiti, espliciti.

A chi, insomma, si propone come alternativa radicale su tutti i fronti dei rapporti di classe.

Unità della sinistra
Quest’altro tormentone tocca un problema reale serissimo: la classe è una (per quanto frammentata in mille figure apparentemente slegate) e non può lottare in modo efficace, con una rappresentanza sfilacciata e divisa, contro un capitalismo mai così potente. Questo vale su tutti i piani, da quello sindacale a quello politico, a quello culturale e valoriale.

Ma nominare un problema vero – quello dell’unità delle forze – non significa indicare la soluzione per risolverlo. Specie se tutta la complessità viene ridotta alla sola dimensione elettorale.

Facciamo notare che questo genere di unità è stato abborracciato in quasi tutte le elezioni perse dalla “sinistra” dal 2008 in poi, quelle in cui “la sinistra radicale” o comunista è di fatto sparita.

L’ultimo tentativo di una certa rilevanza è stato fatto nel 2018, con Potere al Popolo in versione extralarge (Rifondazione, Sinistra Anticapitalista, Pci, formazioni ancora più piccole, ex-Opg di Napoli, Eurostop e strutture di movimento; ma non il Pc di Rizzo o il Pcl).

E quell’insieme raccolse comunque l’1,1%, schiacciato dal “voto utile” sull’onda dell’avanzata di Lega e Cinque Stelle (malamente dipinti come “fascisti travestiti”, in certa pubblicistica che scopiazzava da Repubblica).

Dunque questo tipo di unità sollecitata dalle prospettive elettorali non serve a granché neanche quando viene realizzata.

Peggio ancora: in combinazione con il “voto utile” ha contribuito a far scomparire qualsiasi soggetto alternativo minimamente radicale, creando un deserto popolato di gruppi ristretti in cerca di un’aggregazione “di scopo”, sufficiente a far sperare nella sopravvivenza.

Quindi anche in questo caso bisogna rovesciare il discorso: l’unità che serve va costruita con pazienza e serietà ogni giorno nel conflitto sociale e politico, ma soprattutto deve recuperare una credibilità nei settori popolari che ormai è andata perduta e che posizioni di ‘rendita sul passato’ non aiutano a recuperare.

E’ un lavoro faticoso, impossibile se si pensa che tutto si risolverebbe facilmente se “gli altri” si sottomettessero alle proprie paturnie di gruppo o addirittura individuali.

Lo vediamo ad esempio nella costruzione dello sciopero generale dell’11 ottobre, dove non mancano certo i problemi e i “protagonismi” fuori luogo, nonostante che la pressione della realtà sui posti di lavoro sia così forte da aver costretto tutti i sindacati di base – fin qui marcianti ognuno per proprio conto – a fare fronte comune.

Ma questa fatica va affrontata, non bypassata con un “salto” fatto a chiacchiere.

L’unità si costruisce sulle soluzioni che funzionano, non sulle “regole dello stare insieme”. Perché le soluzioni che funzionano dànno forza, quelle sballate indeboliscono.

E come ci è già capitato di dire, è la forza che fa l’unione.

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