LA CITTÀ FUTURA VIVRÀ GRAZIE ALLA PARTECIPAZIONE DEI CITTADINI – seconda parte

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista realizzata da Fausto Piazza, per Ravenna&Dintorni, a Piera Nobili. Architetta dello Studio OTHE di Ravenna, Piera Nobili è presidente del CERPA Italia Onlus di Trento (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’accessibilità) e co-responsabile del CRIBA-ER (Centro regionale d’Informazione sul Benessere Ambientale) che ha sede a Reggio Emilia. Sul piano istituzionale ha il ruolo di vicepresidente dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Ravenna. Oltre alla professione, si è impegnata nello sviluppo e nella tutela della cultura di genere come socia fondatrice dell’associazione Femminile Maschile Plurale di Ravenna e dell’associazione Liberedonne che gestisce la Casa delle donne di Ravenna.

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Crede che le forme di partecipazione al disegno di una città futura siano uno strumento utile ed efficace, funzionano?

«La partecipazione è un ottimo strumento per la progettazione se non è utilizzata solo per ottenere favore e consenso. La partecipazione funziona se nasce e cresce con un approccio onesto, senza strumentalizzazioni, in una prospettiva di lavoro autenticamente comune, e in un contesto di programmazione a più livelli fra loro intersecati. Conosco bene diverse esperienze feconde in cui progetti “dal basso” non solo hanno stimolato finanziamenti pubblici e crowdfunding, ma anche investimenti privati che hanno trovato interesse in termini di attivazione di servizi e iniziative commerciali. Esempi virtuosi che sono stati capaci di saldare istanze ed esigenze diverse per elevare la qualità della vita e dell’ambiente».

Lei come professionista ha una lunga esperienza orientata al ruolo sociale e direi pure etico dell’architettura. Come valuta la catastrofe in termini di morti che ha coinvolto spazi di ricovero come le Rsa?

«Sono molti i “servizi” abitativi pensati per l’età anziana: case di riposo, case protette, RSA, alloggi con servizi e portierato sociale, comunità alloggio, gruppi appartamento, condomini solidali, coabitazioni. Fra tutti questi le RSA, introdotte negli anni ’90, sono specializzate per anziani con disabilità gravi, in particolare di natura cognitiva quale l’Alzheimer. Lo stesso acronimo ne definisce il fine: Residenza Sanitaria Assistenziale, dove l’intervento assistenziale è integrato alla cura sanitaria cronica. Ma tipologicamente non sono e non potrebbero essere un ospedale, in quanto sono Residenze, ovvero abitazioni. Camere a due letti, alcune a un letto (poche), spazi di vita comune a volte polivalenti. Una tipologia che non si presta a isolare in sicurezza alcuni residenti dagli altri, a meno che la struttura in questione non abbia spazi altri da adibire allo scopo perché facilmente confinabili. Pertanto, i molti decessi, ancora non chiaramente precisati, avvenuti in RSA penso che siano dipesi più da una sottovalutazione del rischio e della gestione sanitaria, che non dalla conosciuta conformazione spaziale e capacità funzionale degli ambienti. Al di là dell’attuale emergenza, sarebbe comunque necessario rivedere gli spazi abitativi delle RSA per adeguarle alle esigenze in rapido divenire della nostra società: gli e le anziani/e del futuro avranno esigenze diverse da quelli attuali. Ad esempio, per restituire qualità abitativa e dignità di vita dare rilevanza agli ambienti privati, puntare su più e differenti luoghi di socializzazione, pensare alla multisensorialità che usa in modo significativo luce, colore, odori, materiali, arredi e oggetti, promuovere una certa flessibilità degli spazi per consentirne la trasformazione nel tempo. In provincia di Trento, ad esempio, stavamo per completare una RSA quando, per fronteggiare l’emergenza, è stata rapidamente adattata per essere utilizzata come ospedale Covid-19. Quanto sin qui, senza dimenticare le differenti modalità abitative che possono essere realizzate, quali strutture “diffuse” dove ognuno vive a casa propria con servizi assistenziali e sanitari territoriali condivisi, anche telematicamente. Oppure, in co-abitazioni condividendo spazi di relazione e azioni di mutuo-autoaiuto».

Crede che dovremo rivedere anche le nostre case in questi termini di flessibilità, capacità di adeguamento, integrazioni di funzioni?

«Le case che noi viviamo sono state progettate sulla scorta di una società diversa da quella attuale, che si fondava sul nucleo familiare degli anni ’60, una coppia di genitori e 2 o 3 figli. Tutto è cambiato: oggi circa il 40% delle famiglie è formata da una persona singola o da un genitore con figli, altri nuclei sono formati da coppie senza figli e da coppie sposate con figli, senza dimenticare le convivenze finalizzate a condividere le spese abitative. Le famiglie così composte nel tempo a loro volta si trasformeranno riducendo o allargando il gruppo, perché nulla è fermo. A questi dati di fatto, si affianca la “scoperta” del lavoro agile fatto da casa (smart working) che, per certi aspetti, porta a diverse economie oltre che a modifiche delle abitudini. La casa deve poter rispondere a tutte queste novità, essere quanto più possibile adattabile nel tempo. Ci sono esempi in tal senso in Europa. Ricordo le parole dell’architetto Carlo Ratti che parlava di un “ritorno al medioevo” in termini di con-fusione e con-divisione degli spazi a cui avrebbe condotto la rivoluzione informatica. Non più, quindi, la funzione che determina l’ambiente ma l’uso che ne faremo in termini di con-vivenza familiare, lavorativa e sociale. In tal senso, gli spazi dell’abitazione devono essere fluidi e adattabili e, se non essa, è ciò che ci sta intorno che deve consentire questa flessibilità e questa pluralità di mansioni. Luoghi che si qualificano in base a chi, con chi e come sono usati. Uno scenario, per ora, di là da venire».

Poi ci sono tutti quelli che un tetto fanno fatica a mantenerlo o non ce l’anno proprio…

«È l’altra faccia della medaglia. Fino a 3 mesi fa avevamo 5 milioni di persone povere in Italia, nel giro di poco sembra siano arrivate a oltre 6 milioni. Un disagio enorme che diventerà sempre più gravoso in attesa di una ripresa. Nei confronti di queste persone, che si dice occupino “abusivamente” edifici abbandonati – non li ritengo abusivi – che cosa possiamo fare, come intervenire? Partendo dal diritto alla casa, tre riferimenti: il modello di Housing First, l’autocostruzione, una seria ripresa delle politiche abitative di edilizia popolare. Sostenuti dal sostegno al reddito, dalla formazione e dal lavoro».

Qui però è fondamentale l’intervento dell’amministrazione pubblica, della politica…

«Una corretta politica programmatica e attuativa consente di perseguire risultati nei tempi previsti e con maggiori qualità attese. Prendiamo l’esempio del nuovo ponte a Genova di Renzo Piano. Lo stanno costruendo nei tempi previsti e all’interno delle regole dei lavori pubblici e delle norme di sicurezza. Dimostra che gli italiani hanno capacità e competenze, basta saperle utilizzare e organizzare. Però – bisogna dirlo – che se non fosse stato per l’onda emotiva e per la presenza dell’architetto Piano con la sua forza di coesione e persuasione, questo non sarebbe avvenuto. Per altri progetti il rischio è sempre lo stesso: da un lato l’ottusità della burocrazia, dall’altro la presenza di zone grigie dove allignano l’inefficienza e, al peggio, il malaffare».

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